Tribunale di Rimini – sentenza n. 10 del 10/01/2020

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[intestaz]

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di RIMINI Sezione Unica CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Elisa Dai Checchi ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 3125/2016 promossa da: FALLIMENTO T.XXXXX S.R.L. (C.F. XXXXXXXXXXX ) , con il patrocinio dell’ avv. C.XXXXX G.XXXXXX ATTORE contro E.XX S.XXXXX (C.F. XXXXXXXXXXXXXXXX ) , con il patrocinio dell’ avv. P.XXX P.XX P.XXX M.XXXXXXXX S.P.A. (C.F. XXXXXXXXXXX ) , con il patrocinio dell’ avv. P.XXXXXX M.XXXX e CONVENUTI

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’ udienza del 12.7.2019 Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione 1. Il FALLIMENTO T.XXXXX S.r.l. ha convenuto, dinanzi all’ intestato Tribunale, la M.XXXXXXXX S.p.a. ed E.XX S.XXXXXX, invocandone la responsabilità, ai sensi dell’ art. 2043 c.c., per avere acquistato il complesso aziendale della T.XXXXX – del valore complessivo di oltre 300.000, 00 euro – ad un prezzo vile, pari a 8.000, 00 euro, così realizzando, in concorso con il curatore fallimentare, una fattispecie distrattiva del patrimonio della fallita, che – in sede civile – obbligherebbe i responsabili al risarcimento dei danni cagionati al ceto creditorio.

A fondamento della domanda, ha esposto che, in data 8.3.2012, veniva dichiarato il FALLIMENTO della T.XXXXX S.r.l., con successiva nomina del curatore fallimentare nella persona di D.XXXXX B.XXXXXX; che costui commetteva plurime violazioni dei doveri dell’ ufficio, nell’ ambito della procedura di liquidazione dell’ attivo fallimentare, dirette sostanzialmente a sottostimare il patrimonio della fallita e a venderlo nell’ ambito di una gara “falsata”, a cui partecipavano effettivamente i soli convenuti; che, approfittando degli illeciti commessi dal curatore, E.XX S.XXXXXX, ex amministratore della fallita, e M.XXXXXXXX s.p.a ., ex affittuaria dell’ azienda della fallita, riuscivano ad acquistare il complesso aziendale della T.XXXXX ad un prezzo irrisorio, all’ uopo costituendo la società A.XXXXX s.r.l., che si sarebbe poi resa aggiudicataria dei beni della fallita.

Più precisamente, a dire di parte attrice, il curatore prospettava artatamente al giudice delegato l’ impossibilità di vendere l’ azienda della fallita nel suo complesso, facendosi così autorizzare a vendere i singoli beni come rimanenze di magazzino, di cui redigeva un inventario lacunoso, peraltro, stimandolo a ribasso; successivamente, ometteva le forme di pubblicità prescritte dalla l. fall. per la vendita competitiva del patrimonio della fallita, di modo che solo i convenuti partecipassero alla gara, riuscendo poi effettivamente ad aggiudicarselo ad un prezzo irrisorio.

Ritualmente costituitisi, i convenuti chiedevano il rigetto della domanda, siccome infondata in fatto e in diritto, tenuto conto, non solo del fatto che l’ acquisto di cui si discute era stato autorizzato dal giudice delegato, ma soprattutto della sostanziale congruità del prezzo, accertata dal perito, nominato nell’ ambito del parallelo procedimento penale avviato a carico del convenuto S.XXXXXX e del legale rappresentante della M.XXXXXXXX, in concorso con il B.XXXXXX, per il reato di bancarotta, procedimento conclusosi con l’ assoluzione degli imputati.

Espletati gli incombenti istruttori, la causa era trattenuta in decisione sulle conclusioni sopra richiamate La domanda è infondata e deve essere rigettata.

[fattoediritto]

Parte attrice invoca la responsabilità ai sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c. dei convenuti, per aver acquistato per il tramite della società A.XXXXX, da essi costituita, l’ intero compendio aziendale T.XXXXX – comprensivo del marchio, di notorietà internazionale, avente un valore totale di svariate centinaia di migliaia di euro – ad un prezzo irrisorio, approfittando degli illeciti commessi dal curatore fallimentare, il quale – artatamente esclusa la possibilità di vendere l’ azienda nel suo complesso – avrebbe provveduto a valutare esclusivamente le rimanenze di magazzino, peraltro, presentando un inventario lacunoso (dal quale mancherebbero beni con valore residuo contabile di 33.193 , 61) e stimandone il valore in poche migliaia di euro, a fronte dell’ effettivo valore di oltre 300.000, 00 euro.

Spettava a parte attrice l’ onere di dimostrare la ricorrenza di tutti gli elementi dell’ illecito aquiliano, dando prova, sotto il profilo del danno, dell’ effettiva sproporzione tra il prezzo di acquisto e il reale valore dei beni della fallita e , sul versante dell’ elemento soggettivo, del concorso doloso dei convenuti nell’ illecito del curatore, o, quantomeno, della consapevolezza di aggiudicarsi l’ azienda ad un prezzo vile, così distraendo beni dall’ attivo fallimentare.

Parte attrice non ha assolto l’ onere probatorio da cui era gravata, non risultando dimostrata la sussistenza della colpevolezza e , in radice, del danno.

Cominciando dal danno, come anticipato, l’ attore avrebbe dovuto dimostrare l’ erroneità della stima effettuata dal curatore e , così, l’ effettiva sproporzione tra il valore dei beni ceduti e il prezzo pagato dall’ aggiudicatario.

Come anticipato, parte attrice non ha assolto tale onere, limitandosi ad offrire meri elementi indiziari dell’ erroneità della stima effettuata dal curatore fallimentare, in relazione all’ effettivo valore dell’ azienda, che, a suo dire, si desumerebbe dai dati contabili della società prima del fallimento (che indicavano in oltre 300.000, 00 il valore del magazzino ) , dall’ opzione di acquisto al prezzo di euro 60.000, 00 contenuta nel contratto di affitto di azienda precedente il FALLIMENTO e dai ricavi conseguiti dall’ aggiudicataria rivendendo i beni acquistati dal fallimento.

Invero, tali elementi non paiono sufficienti ad indicare il reale valore dell’ azienda, il quale non può certo inferirsi dai dati contabili, spesso inattendibili, specie in relazione ad imprese prossime al fallimento, né dal prezzo convenuto per l’ acquisto dell’ azienda mesi prima del fallimento. Neppure pare idoneo allo scopo il mero richiamo ai ricavi conseguiti dall’ aggiudicatario attraverso la vendita dei beni della fallita, atteso che la generica prospettazione attorea, lungi dallo svolgere una compiuta analisi dell’ attività commerciale di A.XXXXX, si limita a fare qualche esempio delle plusvalenze ricavate dall’ aggiudicataria.

Ad ogni modo, la congruità del prezzo di acquisto pagato dall’ aggiudicatario è stata definitivamente accertata dalla perizia – pacificamente utilizzabile in questa sede – svolta nel procedimento penale per i medesimi fatti qui contestati, attratti sotto l’ egida della bancarotta, procedimento conclusosi con l’ assoluzione di tutti gli imputati.

La relazione di consulenza, condivisibile in quanto esaustivamente e correttamente motivata, ha chiarito che, nella specie, non poteva ipotizzarsi la vendita dell’ intero complesso aziendale, semplicemente perché un complesso aziendale non v’ era più. Esso era stato completamente disgregato, prima, con la messa in liquidazione e l’ affitto di azienda alla M.XXXXXXXX – che, come correttamente evidenziato dal perito, non aveva avuto ad oggetto apparati produttivi e personale, dunque, non aveva garantito la continuità aziendale – e , poi, con il FALLIMENTO, all’ esito del quale l’ azienda risultava ferma, destrutturata, senza clienti, senza maestranze, priva di processi produttivi e aziendali, priva di rete commerciale, di operai specializzati (in un settore in cui “l’ azienda di fatto è costituita da chi è depositario del Know how”) e di qualsiasi prospettiva futura.

Esclusa la possibilità di vendere l’ intera azienda, per l’ assorbente ragione che essa non esisteva più, il perito ha provveduto a stimare i beni della T.XXXXX, tenendo conto della rilevante quantità di beni obsoleti o cc.dd. slow moving, nonché del consistente abbattimento di valore dei beni materiali e del marchio a seguito del fallimento della società che li deteneva (con le note conseguenze in termini di difficoltà di collocazione e destinazione dei beni del magazzino, spesso “cannibalizzato”, cfr. pag 30 perizia). All’ esito di tale ( D CO approfondita analisi, il ctu ha affermato la sostanziale congruità della stima effettuata dal o” -2 CM “D curatore fallimentare, chiarendo che il maggior realizzo che si sarebbe potuto ricavare g CM attraverso una vendita preceduta da adeguata pubblicità sarebbe stato compensato dalle CO Q w spese di quest’ ultima.

Spiega il perito che, nel settore in cui operava la T.XXXXX, il valore dell’ azienda è dato 2 t t*~ ” I”principalmente dal know how e , dunque, dall’ intero processo produttivo aziendale, g O ro Q sviluppato dalle maestranze e da operai specializzati, sicché la disgregazione dell’ azienda co Zi determina la svalutazione delle rimanenze di magazzino, a cui non può certo essere Z ) attribuito il valore indicato nella contabilità precedente il FALLIMENTO.

Le considerazioni del perito non sono state efficacemente contestate da parte attrice, le cui”UJ osservazioni si sono appuntate tutte sulle caratteristiche del soggetto acquirente, a suo dire,”0-in grado di garantire la “continuità aziendale ” E, dunque, di mantenere inalterato il valore 8 dei beni della fallita.

A dire di parte attrice, le conclusioni del perito sarebbero errate perché non tengono conto del fatto che è la qualifica dell’ acquirente (costituita da S.XXXXXX e M.XXXXXXXX, esperti del I D settore) a garantire il mantenimento del know how e della rete commerciale.

La tesi attorea appare destituita di fondamento. All’ evidenza, il valore di un bene non può essere calcolato sulla base delle caratteristiche di chi lo acquista e delle sue possibilità di valorizzarlo, attraverso la propria abilità, la propria esperienza e la propria rete commerciale.

L’ azienda della T.XXXXX non esisteva più, era del tutto disgregata e le rimanenze di magazzino dovevano essere valutate come tali, indipendentemente dal fatto che S.XXXXXX personalmente o M.XXXXXXXX avessero la possibilità di ripristinare i processi produttivi, ovvero disponessero delle conoscenze, del know how e della rete commerciale per reinserire, in una nuova azienda (è bene precisarlo ) , quelle rimanenze di magazzino.

La procedura competitiva, con tutta evidenza, non ha avuto ad oggetto la rete commerciale riconducibile alle conoscenze personali dello S.XXXXXX, né la sua possibilità di implementare processi produttivi e know how acquisito attraverso l’ esperienza e l’ attività pluriennale nel settore di riferimento. La procedura di vendita, ovviamente, ha avuto ad oggetto esclusivamente i beni della T.XXXXX, senza che possa tenersi in considerazione la maggiore o minore possibilità dell’ acquirente di farli fruttare.

In buona sostanza, la stima dei beni effettivamente venduti, ovvero le rimanenze di cn o 5 magazzino, considerate come tali, non è contestata da parte attrice, che si limita ad co “2 o evidenziare che, nelle mani di E.XX S.XXXXXX e della M.XXXXXXXX, tali beni sono diventati qualcosa d’ altro, sono stati organizzati in azienda e hanno riacquistato il loro originario 05 “C co U valore. Ma le conoscenze tecniche e la rete commerciale – che hanno consentito ai convenuti o I”di ritrarre profitti da quelle rimanenze di magazzino – pertengono alla persona dello S.XXXXXX IO ( Y e alla M.XXXXXXXX e , all’ evidenza, non sono stati oggetto della vendita competitiva.

L’ erroneità della tesi attorea può facilmente apprezzarsi operando un semplice giudizio u o controfattuale: eliminando mentalmente la condotta (che l’ attore assume) illecita dei”L. convenuti, dunque, il loro acquisto dell’ azienda, la stessa sarebbe stata acquistata (nella più o”favorevole delle ipotesi, salvo immaginare un’ asta deserta) da un ipotetico offerente che non co H Z ) w avrebbe potuto disporre della rete commerciale e del know how di cui disponeva re ^re personalmente il socio della fallita. Quanto avrebbe pagato costui per acquistare i beni della w w Q o T.XXXXX (rectius, quale sarebbe stato il giusto prezzo) ? Il perito del Tribunale, con una”O W z valutazione non contestata sul punto, ha accertato che avrebbe pagato, per l’ appunto 8.000, 00 ( O meglio che il prezzo congruo sarebbe stato questo, salvo il leggero incremento I D realizzabile con una maggiore pubblicità, incremento eroso dalle spese di quest’ ultima). Q CO Tale semplificazione vale a rendere evidente che la condotta dei convenuti non ha comunque determinato alcun danno alla fallita (e ai suoi creditori ) , atteso che, anche eliminando la condotta contestata (dunque, l’ acquisto da parte dei convenuti ) , il ricavo della vendita non sarebbe variato, con conseguente esclusione del danno lamentato.

A ben vedere, ciò che l’ attore vuole sottolineare è il rilevante vantaggio patrimoniale che i convenuti hanno conseguito per effetto della loro condotta (dolosa, o quantomeno “scaltra”) , ma, come noto , il vantaggio conseguito dall’ agente non necessariamente corrisponde alla causazione di un danno; e , esclusa la possibilità di danni cc.dd. punitivi, l’ imputazione di responsabilità non può prescindere dal rigoroso accertamento del danno, in mancanza del quale la mera sussistenza di una condotta dolosa, colposa, o comunque riprovevole non è sufficiente a fondare la condanna al risarcimento del danno, che semplicemente non sussiste.

Peraltro, nella specie (e si viene così ad esaminare il secondo degli elementi di cui all’ art. 2043 c.c. ) , difetta pure la prova dell’ elemento soggettivo. Nella prospettazione attorea, esso sarebbe dimostrato dal fatto che i convenuti non potevano non essere a conoscenza – in co h* quanto, rispettivamente, ex amministratore della società e ex affittuaria dell’ azienda della “05 C. fallita – della grave sproporzione del prezzo.

Ora, anche ammettendo per un momento che il prezzo di acquisto sia incongruo (circostanza, invero, smentita dalle risultanze istruttorie, di cui si è ampiamente detto ) , non 05 “C W sussistono elementi sufficienti a sostenere la colpevolezza dei convenuti. In effetti, anche a s voler ritenere il prezzo inferiore al valore di mercato dei beni, non si vede come tale IO ( Y circostanza possa imputarsi ai convenuti.

Costoro hanno costituito la società A.XXXXX, la quale si è resa aggiudicataria, in seno alla u o procedura di vendita fallimentare – autorizzata dal giudice delegato su parere favorevole del”LO comitato dei creditori – dei beni della fallita, per un prezzo superiore alla stima effettuata dal o”curatore.

Quale sarebbe, dunque, la loro colpa ? Q Q o o w w Per quale ragione essi avrebbero dovuto ritenere l’ erroneità della stima effettuata dal IH LO curatore ? -1 5 – 3 Forse, perché sapevano che il valore di mercato dei beni del magazzino risultante dalle LO o I Z ) scritture contabili era superiore ? Oppure perché sapevano che, grazie alle loro conoscenze Q CO del settore, nel quale operavano da anni, li avrebbero potuti vendere a prezzi notevolmente maggiori (come poi concretamente avvenuto) ? Non può che rispondersi negativamente a tutte le domande.

Sotto il primo profilo, va evidenziato che i convenuti potevano anche avere una conoscenza laica e approssimativa del valore di mercato dei beni, con i quali erano avvezzi a commerciare, ma certamente non sapevano come gli stessi beni debbano essere stimati nell’ ambito di una procedura fallimentare, che fisiologicamente determina una svalutazione del valore del complesso aziendale della fallita. Essi non erano certamente tenuti a conoscere i criteri che debbono orientare il professionista nella stima dei beni nel magazzino, in particolare, non erano tenuti a sapere se essi dovevano essere stimati singolarmente, ovvero come complesso di beni organizzati dall’ imprenditore, trattasi infatti, di valutazioni tecniche particolarmente complesse che hanno impegnato i tecnici incaricati dal Tribunale e dalla Procura, i quali sono pervenuti a conclusioni diametralmente opposte, assegnando, il primo, un valore di poche decine di migliaia di euro, il secondo, un valore di oltre 300.000, 00 euro. Tali circostanze certamente escludono l’ imputabilità dei convenuti per l’ omessa segnalazione ai sensi dell’ art. 108 l. fall. Sotto il secondo profilo, si osserva come l’ intenzione (espressa nel business plan di A.XXXXX) dei convenuti (poi attuata) di rivendere i beni ad un prezzo superiore a quello di acquisto, oltre ad essere ovvia (nell’ ambito della più elementare valutazione di convenienza di un acquisto a fini commerciali) non vale di per sé a dimostrare l’ incongruità del prezzo di acquisto, la cui valutazione, come anticipato, deve eseguirsi avendo esclusivo riguardo al bene stesso, e non certo alle personali possibilità di chi lo acquista di valorizzarlo, in ragione delle caratteristiche della propria rete commerciale.

Il fatto che i convenuti – lo S.XXXXXX personalmente e la M.XXXXXXXX – avessero mantenuto le relazioni commerciali sviluppate nel corso di anni di attività nel settore nulla dice in ordine al valore dei beni acquistati, sicché non vale a suffragare la tesi che essi fossero a conoscenza dell’ erroneità (ove sussistente) della stima eseguita dal curatore.

V’ è un’ ulteriore ragione che porta ad escludere che i convenuti sapessero o dovessero sapere che il prezzo di acquisto era incongruo: il fatto che l’ acquisto è avvenuto nell’ ambito di una procedura “competitiva”. Come noto , nell’ ambito della procedura fallimentare, è la modalità della vendita “competitiva ” a costituire la migliore garanzia del massimo realizzo. E, in effetti, è proprio la gara tra gli offerenti, espletata all’ esito di regolare pubblicità, che garantisce che il prezzo di aggiudicazione sia quello massimo ricavabile dalla vendita.

Nella specie, i convenuti potevano confidare nel fatto che la pubblicità fosse stata correttamente espletata (non spettando certamente ad essi controllare il regolare espletamento delle formalità previste dalla Legge fallimentare ) , a dimostrazione – essendo loro gli unici offerenti – della scarsa appetibilità dei beni sul mercato.

In conclusione, la formale regolarità della procedura di vendita, l’ autorizzazione del Giudice delegato e la congruità del prezzo rispetto alla stima del curatore valgono certamente a fondare l’ affidamento dei convenuti sulla legittimità del loro acquisto e , dunque, ad escluderne la colpa.

A ben vedere, l’ unica ricostruzione alla quale ancorare la sussistenza dell’ elemento soggettivo in capo ai convenuti è quella del dolo, rappresentato dalla conclusione di un accordo fraudolento con il curatore, in forza del quale questi avrebbe stimato i beni a ribasso e omesso le formalità pubblicitarie, al fine di consentire ad essi convenuti di partecipare da soli alla gara e aggiudicarsi i beni della T.XXXXX a un prezzo inferiore a quello di mercato.

E, tuttavia, in difetto del benché minimo elemento istruttorio (intercettazioni, o passaggi di denaro) la tesi di un accordo di natura corruttiva tra l’ aggiudicataria e il curatore deve restare relegata al rango della mera congettura.

Ben possibile (anzi probabile) che i convenuti abbiano “approfittato”delle circostanze (sfruttando le proprie personali conoscenze tecniche e commerciali, per reinserire i beni della T.XXXXX, acquistati a poco prezzo, in una nuova azienda, sostanzialmente analoga a quella della fallita ) , ma questo non vale di per sé a dimostrare la colpevolezza della condotta, la cui sussistenza deve ancorarsi, non già al vantaggio che l’ agente mirava a conseguire, ma al danno, che, come detto, nella specie, non vi è stato.

Ora, la condotta dei convenuti (che, se non può definirsi dolosa o colposa, può certamente considerarsi “astuta”) , che ha consentito loro, per usare le parole del procuratore di M.XXXXXXXX, di fare “un buon affare”- se non è sufficiente a determinare l’ accoglimento della domanda – costituisce giustificato motivo per la compensazione delle spese del presente giudizio, avuto riguardo alla complessiva situazione che, a seguito di essa, si è venuta a determinare: il FALLIMENTO T.XXXXX è stato chiuso con un attivo di poche migliaia di euro, a fronte di rilevanti vantaggi patrimoniali per i convenuti, che sono riusciti a ricostituire un’ azienda sostanzialmente analoga a quella della fallita.

In conclusione, s’ impone il rigetto della domanda, con compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone: – Rigetta la domanda; – Spese compensate.

Rimini, 9 gennaio 2020 Il Giudice dott. Elisa Dai Checchi

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