Il sindaco deve vigilare anche sulla gestione della società

Tag 21 Novembre 2013  |

L’obbligo di vigilanza dei sindaci si estende anche al contenuto della gestione della società. Difatti la previsione di cui all’art. 2403, comma primo, parte prima, c.c., va combinata con quelle del terzo e del quarto comma della medesima disposizione, e pertanto il collegio sindacale ha il potere, ma anche il dovere, di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali.

In tal senso il controllo dei sindaci non deve essere limitato allo svolgimento di compiti di mero controllo contabile e formale. Nella fattispecie si contesto la mancata rilevazione da parte dei sindaci di una fattura emessa per un importo pari a due volte e mezzo il capitale sociale.

 

[intestaz]

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

 

Dott. DI AMATO Sergio – Consigliere –

 

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

 

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

 

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso 17889/2009 proposto da:

 

Z.C. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 42, presso l’avvocato GIORGIANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO FRATI, giusta procura in calce al ricorso;

 

– ricorrente –

 

contro

 

FALLIMENTO GESPA S.P.A., in persona del Curatore Dott. ZA. R., elettivamente domiciliata in CASSIODORO 9, presso l’avvocato NUZZO MARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GABRIELLI GIOVANNI, giusta procura a margine del controricorso;

 

– controricorrente –

 

contro

 

P.P.;

 

– intimato –

 

contro

 

MILANO ASSICURAZIONI S.P.A. (C.F./P.I. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONE IV 99, presso l’avvocato FERZI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAGNUTTI MARIO, giusta procura speciale per Notaio Dott. ALESSIO CIOFINI di FIRENZE – Rep.n. 22074 del 15.9.2009;

 

– resistente –

 

sul ricorso 17973/2009 proposto da:

 

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 42, presso l’avvocato GIORGIANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato TEDESCHI GUIDO UBERTO, giusta procura a margine del ricorso;

 

– controricorrente e ricorrente incidentale –

 

contro

 

FALLIMENTO GESPA S.P.A., in persona del Curatore Dott. ZA. R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 9, presso l’avvocato NUZZO MARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GABRIELLI GIOVANNI, giusta procura a margine del controricorso al ricorso incidentale;

 

– controricorrente al ricorso incidentale –

 

contro

 

Z.C.;

 

– intimato –

 

contro

 

MILANO ASSICURAZIONI S.P.A. (C.F./P.I. (OMISSIS)), anche nella qualità di incorporante e successore a titolo universale della La Previdente Assicurazioni S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONE IV 99, presso l’avvocato FERZI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAGNUTTI MARIO, giusta procura speciale per Notaio Dott. ALESSIO CIOFINI di FIRENZE – Rep. n. 22075 del 15.9.2009;

 

– resistente –

 

avverso la sentenza n. 163/2009 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 24/04/2009;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/10/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

 

udito, per il ricorrente, l’Avvocato GIORGIANNI FRANCESCO che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

 

udito, per il controricorrente Fallimento GESPA, l’Avvocato NUZZO MARIO che ha chiesto l’inammissibilità, in subordine rigetto del ricorso;

 

udito, per la resistente Milano Ass.ni, l’Avvocato LIUZZI GIANFRANCO, con delega, che si riporta;

 

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi, comunque infondati.

 

 

[fattoediritto]

1.- Con sentenza non definitiva del 31.7.2001 il Tribunale di Udine, pronunciando sulla domanda proposta dal curatore del fallimento della s.p.a. Gespa, accertò e dichiarò la responsabilità dei componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale della società fallita in carica a partire dal 31.12.1988 per i danni cagionati alla società ed ai creditori sociali per effetto della mancata adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2447 c.c., e della protrazione della attività sociale oltre la predetta data e, in esito all’istruttoria; con sentenza definitiva del 29.12.2005 (per quanto ancora interessa), condannò – tra gli altri – Z. C. e P.P. in solido tra loro a risarcire al fallimento Gespa s.p.a. i danni cagionati alla società in violazione dei doveri inerenti la loro qualità di sindaci, complessivamente liquidati in Euro 601.286,89, oltre interessi e rivalutazione, nonchè la Milano Assicurazioni s.p.a. – chiamata in garanzia – a rimborsare allo Z. quanto lo stesso era tenuto a corrispondere al fallimento attore, esclusa la franchigia di Euro 2.582,28 e fino alla concorrenza di Euro 258.228,45 e al P. quanto lo stesso era tenuto a corrispondere al fallimento attore esclusa la franchigia di Euro 2.582,28 e fino alla concorrenza di Euro 258.228,45, provvedendo sulle spese.

 

In sintesi, il Tribunale ha ritenuto, con riferimento alla prosecuzione dell’attività dopo il 31.12.1988 – data alla quale la Gespa s.p.a. aveva perduto tutto il capitale sociale, circostanza dissimulata dall’annotazione in contabilità della fattura, datata 29.12.1988; dell’importo di lire 2.500.000.000, emessa nei confronti della Coges s.r.l. ed attinente ad un’operazione inesistente – la responsabilità di amministratori e sindaci in carica a partire dal 31.12.1988 (imputando ai sindaci soltanto il danno riferibile al periodo intercorrente tra il 7.2.1989 ed il 10.6.1989, e cioè tra la data dell’ultima verifica della contabilità sociale e la data del fallimento). Con la sentenza impugnata (depositata il 24.4.2009) la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza di primo grado, rigettando l’appello principale proposto da Z. e P. e dichiarando inammissibile l’appello incidentale della s.p.a. Milano Assicurazioni. In particolare, la corte di merito – rilevato che non appariva necessario procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti, tra l’altro, del terzo sindaco A., che risultava “avere definito transattivamente la vertenza con la curatela, come emerso dagli atti concernenti il procedimento ex artt. 351 e 283 c.p.c.” – ha disatteso le censure degli appellanti principali in punto di: a) sussistenza di ragioni di responsabilità in capo ai sindaci; b) pretesa insussistenza di perdite risarcibili; c) pretesa natura di debito di valuta propria del credito risarcitorio; d) sproporzione tra il valore della causa e misura della condanna alle spese.

 

2.- Contro la sentenza di appello Z.C. e P. P. hanno proposto distinti ricorsi per cassazione affidati a quattro motivi.

 

Resiste con distinti controricorsi la curatela fallimentare intimata.

 

La società assicuratrice intimata non ha notificato controricorso limitandosi a depositare procura speciale a nuovo difensore.

 

I ricorsi – proposti contro la medesima sentenza ù son stati riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

 

Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., la difesa del ricorrente P. ha depositato memoria.

 

2.1.- I motivi di ricorso formulati dai due ricorrenti – conclusi da quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis – denunciano violazioni di norme di diritto e vizi di motivazione sostanzialmente sovrapponibili – come evidenziato anche dal P.G. in udienza – e possono, quindi, essere esaminati congiuntamente.

 

Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano violazione falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2403, 2404, 2405, 2406 e 2407 c.c., – nella formulazione previgente, applicabile ratione temporis) nonchè vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità e deducono – in estrema sintesi – che l’accertamento della responsabilità di cui all’art. 2407 c.c., comma 2, (nel testo previgente al D.Lgs. n. 6 del 2003) e lo stabilire se, nel caso di appropriata vigilanza dei sindaci, il danno si sarebbe ugualmente prodotto o meno, importa un giudizio ipotetico da condurre con valutazione ex ante dei fatti, ricostruendone il loro sviluppo normale secondo indici di comune esperienza (id quod plerumque accidit) e considerando quali sono, di regola, gli effetti di un controllo diligente in relazione alle circostanze del caso. Deducono, ancora, di avere fornito la prova (liberatoria) di aver vigilato con diligenza e ciò esclude che il fatto costitutivo dell’azione (i fatti o le omissioni degli amministratori) possa di per sè essere produttivo della responsabilità di cui all’art. 2407 c.c., comma 2.

 

La circostanza, poi, che gli amministratori abbiano di fatto impedito la vigilanza dei sindaci, dolosamente occultando con artifici la stessa esistenza di operazioni attive rilevanti e decisive per l’equilibrio patrimoniale della società, e per tale via in grado di occultare l’intervenuta perdita del capitale sociale, esclude che possa ritenersi sussistente la responsabilità dei sindaci per la obiettiva impossibilità, dovuta a causa non imputabile ex art. 1218 c.c., di assolvere ai ridetti obblighi di vigilanza. La corte di merito non avrebbe fatto un uso corretto della c.d. presunzione semplice di cui all’art. 2729 c.c., e avrebbe negato che fosse stata fornita dimostrazione delle allegazioni degli appellanti, omettendo di considerare chiare, univoche e decisive risultanze documentali regolarmente acquisite agli atti di causa: a) la fattura Coges – alla data del 7.2.1989 – non era stata registrata nel registro IVA mentre non era scaduto il termine di sessanta giorni per l’annotazione in contabilità; b) la fattura non costituiva un fatto in sè anomalo se rapportata ai ricavi per oltre L. 17.000.000.000 risultanti dal bilancio depositato dal consulente tecnico d’ufficio; c) l’importo della fattura Coges era compensato in parte da quello della fattura, di segno contrario, di L. 1.800.000.000, pure stornata, unitamente alla prima, soltanto a fine aprile 1989.

 

Deducono, poi, che la deliberazione, da parte della società, di un aumento di capitale in grado di sanare lo squilibrio patrimoniale della stessa ed il contestuale versamento dei tre decimi da parte del nuovo socio a mani degli amministratori nel corso dell’assemblea straordinaria ed alla presenza dei sindaci, doveva essere ritenuta rilevante ai fini di escludere la responsabilità dei sindaci stessi ex art. 2407 c.c., comma 2, perchè essa avrebbe rafforzato la legittima e ragionevole convinzione dei medesimi che le condizioni patrimoniali della società fossero in sostanziale equilibrio, nonostante che l’aumento di capitale non fosse stato in seguito omologato e i tre decimi del capitale sottoscritto non fossero stati versati dagli amministratori nelle casse sociali.

 

2.2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano vizio di motivazione e violazione di norme di diritto (art. 2449 c.c. – nella formulazione vigente all’epoca dei fatti). Deducono che la motivazione adottata dal giudice di appello, laddove la stessa, per la sua laconicità e per l’essere formulata in termini di mera adesione, anche con il ricorso alla pedissequa trascrizione della relativa parte motiva della sentenza di primo grado, non consente in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame. Deducono che ai sensi dell’art. 2449 c.c. (nel testo previgente al D.Lgs. n. 6 del 2003), deve ritenersi lecito il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione e, così, in particolare, non possono considerarsi nuove operazioni le spese di manutenzione ordinaria e conservazione dei beni di terzi detenuti dalla società, le spese di pulizia, quelle per le prestazioni professionali di elaborazione paghe e contributi del personale e quelle inerenti la raccolta di rifiuti, nonchè le spese pubblicitarie e ancora di imballaggio e trasporto dei beni oggetto di contratti conclusi in epoca antecedente la data di ritenuta perdita del capitale.

 

Deducono che la liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c., presuppone la già accertata sussistenza dell’illecito, oltre ad una congrua ed adeguata motivazione vuoi in ordine alle ragioni che inducono il giudice a ritenere impossibile o grandemente difficile la prova in questione, vuoi circa il concreto processo logico e valutativo di quei dati attraverso i quali si è giunti, e con quale sufficiente approssimazione, alla liquidazione stessa e, in presenza di operazioni che risultino avere data antecedente quella di ritenuta perdita del capitale ovvero non risultino avere data certa e/o concretamente individuata, una corretta applicazione ed interpretazione degli artt. 2449, comma 1, e 1226 cod. civ., esclude che gli effetti delle operazioni medesime siano presi in considerazione, sia pure in via equitativa, ai fini della determinazione del danno imputabile ad amministratori e sindaci, atteso che per tale via non appare possibile dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta materiale (compimento di nuove operazioni) e l’evento di danno, che solo avrebbe permesso, anche in assenza di prove riguardanti l’esatta quantificazione del pregiudizio, la predetta liquidazione equitativa”. In particolare, in presenza di sanzioni tributarie irrogate in epoca successiva alla data di accertata responsabilità dei sindaci per la ritenuta perdita del capitale, ma relative ad obbligazioni tributarie insorte prima di tale stessa data, delle stesse non deve tenersi conto ai fini della determinazione del danno imputabile ai sindaci stessi, secondo una corretta applicazione ed interpretazione dell’art. 2407 c.c., e art. 2449 c.c., comma 1.

 

Lamentano, infine, che non si sia tenuto conto di tutti gli incassi comunque effettuati dalla società nel periodo rilevante ex art. 2449 c.c., e dei risultati delle azioni revocatorie aventi ad oggetto la cessione di merci, nonchè dei crediti liquidi ed esigibili ingiustificatamente non azionati dalla curatela fallimentare.

 

2.3.- Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1292 c.c. e ss., e relativo vizio di motivazione. Deducono che, qualora in corso di causa uno dei condebitori solidali stipuli con il creditore una transazione, anche laddove non ricorrano le condizioni affinchè gli altri condebitori profittino della transazione ex art. 1304 c.c., si riduce l’intero debito dell’importo corrispondente alla quota transatta, con il conseguente scioglimento del vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali pertanto rimangono obbligati nei limiti della loro quota. Deducono che il giudice, reso edotto in corso di causa della transazione stipulata da uno dei condebitori solidali, deve limitare la condanna e, in caso si tratti di Giudice d’appello, la conferma della sentenza di primo grado nei confronti dei soggetti rimasti in giudizio, al pagamento della sola parte dell’obbligazione che a questi ultimi avrebbe fatto carico nei rapporti interni con l’altro condebitore stipulante.

 

2.4.- Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 c.c., nonchè vizio di motivazione e deducono che, qualora la liquidazione del danno da fatto illecito contrattuale sia effettuata per equivalente, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, il risarcimento anche del mancato guadagno spetta al danneggiato a condizione che risulti dimostrato che il ritardato pagamento della suddetta somma abbia in concreto provocato un pregiudizio al danneggiato, e ciò sulla base delle allegazioni probatorie del danneggiato stesso, ovvero mediante ricorso da parte del giudice a criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi a un tasso stabilito, valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso.

 

4.- Va preliminarmente rilevato, in ordine all’integrità del contraddittorio, verificabile d’ufficio, che questa Corte ha di recente puntualizzato che “l’azione di responsabilità, promossa contro gli organi della società ai sensi dell’art. 2393 c.c., instaura un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo, ravvisandosi un1obbligazione solidale passiva tra gli amministratori ed i sindaci (salvo allorchè l’accertamento della responsabilità di uno di essi presupponga necessariamente quella degli altri, come nel caso di imputazione per omessa vigilanza), con la conseguenza che, in caso di azione originariamente rivolta contro una pluralità di amministratori e sindaci di una società, essi non devono necessariamente essere parti in ogni successivo grado del giudizio, neppure nel caso in cui, in presenza di una transazione raggiunta tra la società ed alcuni tra i convenuti, riguardante le quote di debito delle parti transigenti ed avente l’effetto di sciogliere anche il vincolo di solidarietà passiva, si renda necessario graduare la responsabilità propria e degli altri condebitori solidali nei rapporti interni, all’esito di un accertamento che dovrà necessariamente riferirsi, in via incidentale, anche alle condotte tenute dalle parti transigenti” (Sez. 1, Sentenza n. 7907 del 18/05/2012; cfr. Sez. U, Sentenza n. 30174 del 30/12/2011).

 

La Corte di merito – come sopra evidenziato – ha correttamente applicato il principio enunciato da questa Corte rilevando che non appariva necessario procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti, tra l’altro, del terzo sindaco A., che risultava “avere definito transattivamente la vertenza con la curatela, come emerso dagli atti concernenti il procedimento ex artt. 351 e 283 c.p.c.”, pur non avendo da tale rilievo tratto la conseguenza per la quale, ove la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito mentre, se il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto (Sez. U, Sentenza n. 30174 del 30/12/2011). Violazione giustamente dedotta con il terzo motivo dai ricorrenti.

 

5.- La sentenza impugnata (di cui appare opportuno riportarne le parti essenziali per consentire di cogliere i vizi di motivazione denunciati), per la parte relativa alla responsabilità dei sindaci, ha evidenziato che il tribunale l’aveva ritenuta sussistente affermando “la sussistenza…di una violazione, quanto meno colposa dei loro doveri di controllo almeno a partire dal 7.2.1989, data dell’ultima verifica da loro effettuata sulla contabilità sociale”:

 

“Tardivo e del tutto insufficiente ad escludere la loro responsabilità è il telegramma del 3.6.1989 con il quale è stata intimata agli amministratori la esibizione della bozza di bilancio non ancora predisposta, non foss’altro perchè il bilancio dell’esercizio 1988 avrebbe dovuto essere approvato entro il 30 aprile o, in via alternativa, i sindaci avrebbero dovuto essere informati delle particolari esigenze che impedivano la convocazione dell’asssemblea entro il termine previsto dal secondo comma dell’art. 2364 c.c.; rilevando, inoltre che ..a partire dalla fine del 1988 i sindaci hanno omesso le prescritte verifiche trimestrali e, pur avendo partecipato alle riunioni del consiglio di amministrazione fino al 31.5.1988 (recte: 1989?), nulla hanno osservato in merito alla contabilizzazione della fattura emessa nei confronti della Coges s.r.l. e soprattutto della successiva nota di accredito, che determinava lo storno dalle componenti attive dello stato patrimoniale di un importo sufficiente ad alterare grandemente l’equilibrio finanziario della società ed a far dubitare della permanenza delle condizioni per la sua operatività”.

 

In particolare, poi, quanto ai motivi di appello, la Corte di merito ha osservato che:

 

“a) le riunioni trimestrali di cui all’art. 2404 c.c., rappresentano il dovere minimo gravante sui sindaci (ed, infatti, la disposizione utilizza il termine “almeno”), ma il rispetto formale di tale cadenza (garantito nella fattispecie dalle riunioni del 7 febbraio e del 3 giugno 1989) non esonera i sindaci da responsabilità, in presenza di condizioni di criticità quali quelle sopra evidenziate;

 

b) quanto alla fattura Coges (del rilevante importo di lire 2.500.000.000) emessa dalla Gespa in data 29.12.1988 (all’evidente scopo di far risultare un credito dal bilancio che si sarebbe dovuto chiudere al 31.12.1988, così simulando un positivo andamento economico della società), gli appellanti sostengono di non essere stati in grado di rendersi conto dell’esistenza della fattura durante la visita di verifica e controllo del 7.2.1989 (a quanto consta, l’ultima effettuata), posto che le scritture contabili erano aggiornate al 30.11.1988; così facendo, non considerano però che, come emerge dal relativo verbale, all’osservazione dei sindaci concernente il fatto che l’ultima registrazione annotata a giornale era oltre i 60 giorni previsti dal D.P.R. n. 600 del 1972, art. 22, il responsabile amministrativo rag. R. faceva presente che …le registrazioni del mese di dicembre risultano tutte caricate sull’elaboratore e sono disponibili per la stampa;

 

c) agli effetti dell’IVA, poi, gli stessi appellanti riconoscono che la registrazione della fattura Coges avrebbe dovuto avvenire entro il 29 gennaio 1989, mentre il 7 febbraio la fattura non risultava ancora registrata, risultando aggiornato il registro IVA vendite al 30.12.1988, e portando l’ultima fattura registrata il n. (OMISSIS), mentre la fattura Coges portava un numero successivo: tutto ciò considerato (e considerata, altresì, la presenza di altri rilievi contestualmente mossi dai sindaci nei confronti del R. per mancati versamenti d’imposta precedentemente occultati ed anomalie relative al credito IVA del mese di dicembre) la funzione di controllo – esplicabile in qualsiasi momento dai sindaci, anche individualmente, con atti d’ispezione (art. 2403 c.c.) – in presenza di dubbi sulla regolarità della gestione avrebbe dovuto (e potuto) essere esercitata in modo particolarmente analitico e penetrante, quantomeno con riferimento a tutte le operazioni effettuate sino al 31.12.1988;

 

d) quanto al fatto che, in ogni caso, i sindaci non avrebbero potuto rilevare la fittizietà dell’operazione sulla sola base di un controllo che avrebbe potuto verificare solo l’intervenuta fatturazione, può osservarsi che la fattura in questione era stata emessa per un importo pari a due volte e mezzo il capitale sociale e che l’obbligo di vigilanza dei sindaci non è limitato allo svolgimento di compiti di mero controllo contabile e formale, ma si estende anche al contenuto della gestione, atteso che la previsione della prima parte dell’art. 2403 c.c., comma 1, va combinata con quelle del terzo e del comma 4, del medesimo articolo, che conferiscono al collegio sindacale il potere – che è anche un dovere, da esercitare in relazione alle specifiche situazioni – di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o sul determinati fatti (Cass. 5263/1993);

 

e) infine, la circostanza – che non pare essere stata allegata in primo grado – che l’effetto distorsivo della fattura Coges sarebbe stato in gran parte compensato da una partita passiva, relativa ad altra coeva e parallela operazione inesistente, anch’essa poi stornata (concernente un contratto d’agenzia di data 27.12.1988 intercorso tra Gespa e Coges, in base al quale Coges aveva emesso a carico di Gespa la fattura n. 1 del 31.12.1988, di lire 1.800.000.000 più IVA) non risulta adeguatamente provata, non avendo gli appellanti indicato specifiche prove a sostegno della loro tesi;

 

f) quanto alla deliberazione concernente l’aumento di capitale per L. 3.000.000.000, assunta dall’assemblea straordinaria del 17 maggio 1989, esattamente il Tribunale ha ritenuto che la stessa – non avendo avuto esecuzione – non potesse rivestire la medesima rilevanza della delibera di aumento di capitale assunta nel 1988, che invece aveva effettivamente coperto le perdite (così evitando l’insorgenza di danni alla società o ai creditori sociali derivanti dalla prosecuzione dell’attività, pur in presenza di un evidente mancato rispetto delle norme sulla redazione del bilancio e della mancata adozione delle iniziative previste dall’art. 2447 c.c.);

 

g) infine, la sentenza penale di assoluzione (per il concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta commesso dagli amministratori) qui non rileva, per le ragioni diffusamente esposte dal Tribunale alle pagine da 44 a 48 della sentenza non definitiva e rivestendo, comunque, valore assorbente la circostanza che gli appellanti non hanno fornito la prova che il fallimento sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale (ed, in particolare, che allo stesso sia stato notificato, in qualità di persona offesa, l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare) per gli effetti di cui all’art. 652 c.p.p.”.

 

6.- Alle questioni poste dalle censure di violazione di norme di diritto formulate dai ricorrenti sono applicabili i principi di recente enunciati da questa Corte secondo cui “sussiste la violazione del dovere di vigilanza, imposto ai sindaci dall’art. 2407 c.c., comma 2, con riguardo allo svolgimento, da parte degli amministratori, di un’attività protratta nel tempo al di fuori dei limiti consentiti dalla legge, tale da coinvolgere un intero ramo dell’attività dell’impresa sociale: al fine dell’affermazione della responsabilità dei sindaci, invero, non occorre l’individuazione di specifici comportamenti dei medesimi, ma è sufficiente il non avere rilevato una così macroscopica violazione, o comunque di non avere in alcun modo reagito ponendo in essere ogni atto necessario all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunziando i fatti al P.M., ove ne fossero ricorsi gli estremi, per consentire all’ufficio di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c., in quanto può ragionevolmente presumersi che il ricorso a siffatti rimedi, o anche solo la minaccia di farlo per l’ipotesi di mancato ravvedimento operoso degli amministratori, avrebbe potuto essere idoneo ad evitare (o, quanto meno, a ridurre) le conseguenze dannose della condotta gestoria” (Sez. 1, Sentenza n. 22911 del 11/11/2010).

 

D’altra parte, non risulta smentito l’orientamento meno recente, espressamente richiamato dalla sentenza impugnata e risalente a Sez. 1, n. 2538/2005, secondo il quale l’accertamento del nesso causale è “indispensabile per l’affermazione della responsabilità dei sindaci in relazione ai danni subiti dalla società come effetto del loro illegittimo comportamento omissivo”, a tal fine occorrendo accertare che “un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell’esercizio dei loro compiti (tra cui la mancata tempestiva segnalazione della situazione agli organi di vigilanza esterni) sarebbe stato idoneo ad evitare le disastrose conseguenze degli illeciti compiuti dagli amministratori”.

 

Invero, i principi da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono “l’individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica, e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di chi il risarcimento invoca” (Sez. 1, n. 2538/2005) e tali principi assumono particolare importanza nella concreta fattispecie, nella quale si imputa ai ricorrenti una responsabilità concorrente con quella degli amministratori per violazione dell’art. 2449 c.c., (nel testo previgente al D.Lgs. n. 6 del 2003), per il compimento di nuove operazioni vietate (ossia atti gestori diretti non a fini liquidatori, e quindi alla trasformazione delle attività societarie in denaro destinato al soddisfacimento dei creditori e, nei limiti del residuo, dei soci, ma al conseguimento di fini diversi, pur essendo lecito il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione: cfr. Sez. 1, Sentenza n. 3694/2007) limitatamente al periodo successivo al 7.2,1989.

 

Ciò perchè dall’ispezione eseguita in quella data i sindaci avrebbero dovuto rilevare l’anomalia costituita dalla fatturazione dell’operazione inesistente nei riguardi della Coges e “soprattutto” (cfr. motivazione del tribunale, fatta propria da quella di appello) dalla “successiva nota di accredito, che determinava lo storno dalle componenti attive dello stato patrimoniale di un importo sufficiente ad alterare grandemente l’equilibrio finanziario della società ed a far dubitare della permanenza delle condizioni per la sua operatività”. Ora, anche ai fini della determinazione del danno imputabile alla stregua dei criteri seguiti dalla stessa sentenza impugnata, un conto è che l’anomalia potesse emergere sin dal 7 febbraio 1989 (ma su ciò v. oltre le osservazioni circa la registrazione in contabilità) e un altro è che “soprattutto” dall’operazione di storno dovesse emergere l’anomalia, posto che i ricorrenti deducono (senza che la circostanza sia stata contestata) che lo storno è avvenuto nel mese di aprile del 1989. Sì che non si può ritenere sussistente a far tempo dal 7 febbraio una responsabilità “soprattutto” per non avere rilevato una determinata operazione posta in essere in aprile (operazione di cui, comunque, non è controversa la natura fittizia).

 

Del pari poco chiara è la sentenza impugnata là dove (v. sopra p.5 sub b) implicitamente rimprovera ai sindaci di non avere richiesto la stampa dei dati contenuti nell’elaboratore, pure implicitamente supponendo che contenesse l’annotazione dell’operazione inesistente, fatturata, però, con numero successivo all’ultima fattura inserita nel registro IVA (V. p.5 sub c). Ciò tenuto conto che la stessa sentenza considera il termine di 60 giorni previsti per l’annotazione dal D.P.R. n. 600 del 1972, art. 22, e che tale termine, in relazione alla fattura emessa il 29.12.1988, scadeva ben oltre la data del 7 febbraio. Nè appare irrilevante l’anomalia riconosciuta dalla stessa Corte di appello, costituita da ciò che il registro IVA vendite risultava “aggiornato al 30.12.1988, e portando l’ultima fattura registrata il n. (OMISSIS), mentre la fattura Coges (del 29.12.1988:

 

n.d.r.) portava un numero successivo”.

 

Circostanza che potrebbe denotare proprio l’intento degli amministratori di nascondere ai sindaci quella operazione anomala.

 

Del pari carente appare la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui afferma che “non risulta adeguatamente provata, non avendo gli appellanti indicato specifiche prove a sostegno della loro tesi” la circostanza “che l’effetto distorsivo della fattura Coges sarebbe stato in gran parte compensato da una partita passiva, relativa ad altra coeva e parallela operazione inesistente, anch’essa poi stornata (concernente un contratto d’agenzia di data 27.12.1988 intercorso tra Gespa e Coges, in base al quale Coges aveva emesso a carico di Gespa la fattura n. (OMISSIS) del 31.12.1988, di L. 1.800.000.000 più IVA)”. Che sfugge il significato di adeguatezza della prova circa l’esistenza di un’operazione commerciale di cui, per converso, si menziona – senza dare atto trattarsi di indicazioni di fantasia o senza negarne espressamente l’esistenza nei libri contabili – la data, l’importo, l’indicazione dei contraenti e il numero della fattura. La sentenza impugnata ha attribuito rilievo preminente a quella operazione e dalla motivazione non emerge se le altre circostanze evidenziate (… “considerata, altresì, la presenza di altri rilievi contestualmente mossi dai sindaci nei confronti del R. per mancati versamenti d’imposta precedentemente occultati ed anomalie relative al credito IVA del mese di dicembre”) fossero da sole sufficienti a far emergere, sin dal 7 febbraio 1989, la perdita del capitale sociale.

 

Infine, quanto alla delibera di aumento del capitale sociale (v. p. 5, sub f), va ricordato il principio per il quale “in tema di riduzione del capitale sociale per perdite, la mera deliberazione di aumento del capitale non è idonea a modificare la situazione contabile della società – e dunque il verificarsi della causa di scioglimento di cui all’art. 2448, n. 4, cod. civ. e la conseguente responsabilità degli amministratori ai sensi dell’art. 2449 – sin quando le nuove azioni non siano sottoscritte (e pagate almeno nella misura percentuale minima prescritta dalla legge)” (Sez. 1, Sentenza n. 13503/2007).

 

La sentenza impugnata, nel riportare la motivazione di quella del tribunale, afferma (a pag. 22) che “il 17.5.1989 l’assemblea straordinaria della Gespa s.p.a., informalmente convocata, aveva deliberato l’aumento del capitale sociale da uno a quattro miliardi, detta delibera non aveva mai avuto esecuzione e lo stesso versamento dei tre decimi da parte del nuovo socio Finalba Group s.r.l., asseritamente effettuato mediante assegno postale, non risultava essere mai stato accreditato sui conti delle società o altrimenti pervenuto nelle casse sociali”.

 

Ora, se è certo che la delibera – in quanto non eseguita – non poteva scriminare gli amministratori, tuttavia, ai fini della responsabilità concorrente dei sindaci (e, nella concreta fattispecie, al fine di determinare i danni imputabili a far tempo dall’una o dall’altra data) non può non giovare, in ipotesi, ai predetti, la circostanza della convocazione dell’assemblea, della positiva adozione della delibera di aumento del capitale sociale, la sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte di nuovo socio (Finalba Group s.r.l.) e il versamento dei tre decimi, essendo il mancato versamento della somma nelle casse sociali imputabile agli amministratori.

 

Sono mancati tutti gli accertamenti innanzi evidenziati, talchè si impone un nuovo esame da parte del giudice del merito anche alla luce dei principi di diritto sopra richiamati.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione.

 

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 2 ottobre 2013.

 

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2013

 

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