Il mediatore non iscritto all’albo non ha diritto ad alcuna provvigione

Tag 21 Novembre 2013  |

 

[massima]

Con una sentenza particolarmente interessante, La Corte ribadisce: “Il mediatore non iscritto nei ruoli degli agenti di affari in mediazione, che, ai sensi della L. 3 febbraio 1989, n. 39, art. 6, non ha diritto alla provvigione, non può pretendere alcun compenso neppure con l’azione generale di arricchimento senza causa, atteso che l’art. 8 della stessa legge – secondo cui il mediatore non iscritto è tenuto a restituire alle parti contraenti le provvigioni percepite – comporta l’esclusione, di ogni possibilità di conseguire un compenso per l’attività di mediazione svolta da soggetto non iscritto”.

Inoltre, essendo il soggetto obbligato alla restituzione di quanto eventualmente ricevuto, risulta esclusa ogni obbligazione di pagamento nei suoi confronti, anche se solo naturale (art. 2034 c.c.).

Analogamente, non è esperibile neanche l’azione di indebito oggettivo, ex art. 2033 c.c.. Nel caso di specie, l’obbligo di restituzione della provvigione stabilito dal legislatore nel caso in esame, impedisce il ricorso alla disposizione suddetta.

In altri termini, la disciplina dell’indebito oggettivo si basa sull’assenza di causa dell’attribuzione patrimoniale effettuata. Al contrario, nel caso de quo, il mancato compenso è voluto dal legislatore come “sanzione” per aver compiuto l’attività senza iscrizione all’albo.

 

 

[fatto]

Cassazione civile  sez. III del 10 maggio 2011 n. 10205

1. La M.T.A. srl Management & Business, dopo aver ricevuto da E.M., proprietario dell’intero pacchetto azionario di una società, l’incarico volto alla ricerca di un acquirente per il suddetto pacchetto, chiedeva la collaborazione della CO.I.MI. srl, con la quale stabiliva degli accordi in ordine alla ripartizione delle eventuali provvigioni maturate in caso di conclusione dell’affare.

Concluso l’affare, l’ E. versava alla M.T.A. circa 1 miliardo e 250 milioni di lire. La CO.I.MI. riceveva dall’acquirente circa 190 milioni di lire a titolo di provvigione.

Il Tribunale di Milano, adito dalla CO.I.MI. – che aveva agito nei confronti della M.T.A. per il rispetto degli accordi intercorsi in ordine alla divisione delle provvigioni e, alternativamente, per ottenere la provvigione dall’ E., nell’ipotesi di accertamento che la M.T.A. non ne aveva diritto non essendo iscritta nel ruolo dei mediatori – condannava la M.T.A. al pagamento a favore della CO.I.MI. di circa 535 milioni di lire e alla restituzione di circa 725 milioni di lire all’ E..

2. La Corte di appello di Milano, nel contraddittorio di tutte le parti, rigettava l’impugnazione proposta dalla M.T.A. (sentenza del 25 febbraio 2006).

La Corte di merito:

– anche analizzando le scritture (dell’ottobre del 1999 e del maggio 2000) che regolavano il rapporto tra la M.T.A. e l’ E., qualificava “mediazione” l’attività svolta dalla M.T.A. ed escludeva il contratto atipico di procacciamento d’affari;

– rilevata la pacifica mancanza di iscrizione della M.T.A. nel ruolo dei mediatori, e la mancanza del diritto a chiedere e ricevere la provvigione, ne ricavava l’obbligo di restituire quanto percepito;

– rigettava il motivo di appello subordinato, volto alla disapplicazione della L. 3 febbraio 1989, n. 39, artt. 3 e 6, per contrasto con la direttiva del Consiglio (CEE) n. 653/1986 del 18 dicembre 1986, o alla rimessione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sostenendo che la suddetta direttiva si riferisce alla figura professionale dell’agente di commercio e non contiene alcuna previsione per il rapporto di mediazione e per il contratto di mandato;

– rigettava il motivo di appello volto alla conversione ex art. 1424 c.c., del contratto di mediazione (nullo per violazione di norma imperativa) in contratto di procacciamento di affari, sostenendo che dalla mancata iscrizione all’albo dei mediatori non deriva la nullità, ma solo la non insorgenza del diritto alla provvigione (Cass. 27 giugno 2002. n. 9380);

– rigettava il motivo di appello volto a sostenere il diritto della M.T.A. di trattenere quanto spontaneamente corrisposto dall’Epifani a titolo di obbligazione naturale o di arricchimento senza causa, sostenendo che, essendo il mediatore non iscritto tenuto a restituire il compenso percepito (L. n. 39 del 1989, art. 8) è esclusa ogni possibilità di conseguire un compenso.

3. Avverso la suddetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione la M.T.A. srl con quattro motivi.

Hanno resistito con controricorso l’ E., che ha depositato memoria, e la COIMI. 4. Con il primo motivo, la ricorrente sostiene l’incompatibilità con il diritto comunitario (divieto di discriminazione in ragione della nazionalità, libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi, artt. 12, 43 e 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (ex art. 153 paragrafo 2, 37, 43 e 201 del Trattato CE) delle disposizioni della L. n. 39 del 1989 (artt. 2, 3, 6 e 8) nella parte in cui riservano ai soli iscritti al ruolo degli agenti di mediazione lo svolgimento di ogni attività di mediazione, anche se riferita a rapporti tra imprenditori, e prevedono la inesigibilità della provvigione in caso di mancanza di iscrizione.

Chiede, in via gradata: la disapplicazione delle suddette norme; la rimessione pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 234 TFUE (ex art. 201 TCE).

 

 

[diritto]

In particolare, la ricorrente sostiene che, al di là della riferibilità della direttiva del Consiglio (CEE) n. 653/1986 ai soli agenti di commercio (come ritenuto dalla sentenza impugnata), il contrasto con il trattato emergerebbe: dal disfavore dell’ordinamento comunitario per gli albi professionali – da valutare con particolare rigore quando non si tratta di professioni intellettuali – secondo la giurisprudenza e la politica legislativa (direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio (CE) n. 36/2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, per la quale disposizioni restrittive sono compatibili se rispondenti a interesse generale e ferma la proporzione); dal particolare rigore all’accesso rispetto alla natura dell’attività che non richiede particolari prestazioni intellettuali; dalla sproporzione se si considera la mediazione tra imprenditori, stante l’originaria finalità di tutela del consumatore).

4.1. Il motivo va rigettato.

Le disposizioni della L. n. 39 del 1989 (artt. 2, 3, 6 e 8), che riservano ai soli iscritti al ruolo degli agenti di mediazione lo svolgimento di ogni attività di mediazione e prevedono la inesigibilità della provvigione in caso di mancanza di iscrizione, non contrastano con il diritto comunitario.

Va in primo luogo precisato che, il profilo della discriminazione in ragione della nazionalità, sia pure inizialmente prospettato dalla ricorrente, non è stato poi coltivato nelle argomentazioni, restando mera petizione generica.

4.1.1. Quanto al contrasto della disciplina suddetta rispetto al principio della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi, la Corte si è già pronunciata espressamente nel senso di negarlo in riferimento alla direttiva del Consiglio (CEE) n. 653/1986, essendo la stessa riferita ai soli agenti di commercio. Si è, infatti, ritenuto che “La previsione del rifiuto di ogni tutela al mediatore non iscritto nel ruolo – secondo quanto stabilito dalla Legge Statale 3 febbraio 1989, n. 39 – non contrasta con la direttiva 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, giacchè tale direttiva – che osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in apposito albo – non si rivolge al mediatore, il quale agisce in posizione di terzietà rispetto ai contraenti posti in contatto, a tale stregua differenziandosi dall’agente di commercio, che attua invece una collaborazione abituale e professionale con altro imprenditore”. (Cass. 5 giugno 2007, n. 13184; ribadito da Cass. 30 ottobre 2007, n. 22859 e da Cass. 26 marzo 2009, n. 7332).

Del resto, di tanto sembra consapevole la stessa ricorrente, che pone l’accento sulla circostanza che si tratterebbe, nella specie, di mediatore “tra imprenditori”. Tale profilo non è esaminabile dalla Corte, innanzitutto perchè privo di dignità normativa nell’ordinamento; poi, perchè non è mai emerso nel giudizio di merito rispetto alla fattispecie in esame.

4.1.2. Peraltro, a fronte di specifiche pronunce della Corte di Giustizia, concernenti l’attività di mediazione, per gli affari immobiliari, la ricorrente deduce il generico disfavore dell’ordinamento comunitario rispetto alla previsione di albi nazionali.

Infatti, occupandosi della direttiva 67/43/CEE, relativa all’attuazione della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi per le attività autonome attinenti: 1) al settore “Affari immobiliari (escluso il 6401)” (Gruppo ex 640 CITI), 2) al settore di taluni “Servizi forniti alle imprese non classificati altrove” (Gruppo 839 CITI), la Corte di Giustizia ha ritenuto che tale direttiva non osta ad una disciplina nazionale che riservi l’esercizio di determinate attività nel settore degli affari immobiliari a soggetti legalmente abilitati all’esercizio dell’attività di agente immobiliare (Sentenza del 28 gennaio 1992, in cause riunite C-330/90 d C-331/90, Sentenza del 25 giugno 1992, in C-147/91).

Invece, secondo la stessa prospettazione della ricorrente, che pure deduce il generico disfavore dell’ordinamento comunitario per gli albi professionali, la stessa direttiva 2005/36/ CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, ritiene compatibili disposizioni restrittive se rispondenti a interesse generale e proporzionate.

In sostanza, lo stesso ricorso riconosce la non sussistenza di un contrasto diretto con il diritto comunitario.

D’altro canto, il legislatore comunitario, che recentemente si è occupato della materia dei servizi nel mercato interno (direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, n. 123), dando occasione ad una nuova legislazione nazionale che ha soppresso il ruolo dei mediatori, non ha posto ostacoli diretti alla conservazione degli effetti della pregressa normativa incidenti sulla retribuzione del mediatore non iscritto. Infatti, come ritenuto dalla Corte – sia pure rispetto a fattispecie in cui non era applicabile la nuova disciplina – “il D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, art. 73, che, in attuazione della direttiva 2006/123/CE, ha soppresso il ruolo dei mediatori di cui alla L. 3 febbraio 1989, n. 39, art. 2, non ha abrogato tale legge, disponendo che le attività da essa disciplinate sono soggette a dichiarazione di inizio di attività, corredata da certificazioni attestanti il possesso dei requisiti prescritti, da presentare alla camera di commercio; ne consegue che l’art. 6, della L. n. 39 cit. deve interpretarsi nel senso che, anche per i rapporti di mediazione sottoposti alla normativa di cui al D.Lgs. n. 59 del 2010, hanno diritto alla provvigione i soli mediatori iscritti nei registri o nei repertori tenuti dalla camera di commercio”. (Cass. 8 luglio 2010, n. 16147).

5. Con il secondo motivo, logicamente subordinato, la ricorrente deduce che – alla luce del complessivo impianto normativo di origine nazionale, dei profili di compatibilità della stesso con il principio di libera prestazione dei servizi – l’obbligo di iscrizione del mediatore ai fini della esigibilità della prestazione va interpretativamente limitato ai mediatori professionali e non riferito a chi, come i mediatori occasionali, si limita a favorire la conclusione di un affare mettendo in contatto le parti con compiti istruttori di lieve entità. In via gradata, chiede: – la rimessione pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 234 TFUE (ex art. 201 TCE); la rimessione alla Corte costituzionale per l’eccezione di legittimità costituzionale – in riferimento ai principi che tutelano la libertà del lavoro (artt. 1, 3 e 35 Cost.) e l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) – delle norme che riservano (L. n. 39 del 1989, art. 2, commi 1 e 4, e art. 7, comma 6) agli iscritti al ruolo in argomento anche l’esercizio discontinuo o occasionale.

Il motivo è inammissibile in quanto nuovo, non essendo mai emerso nel processo di merito il carattere occasionale della mediazione.

6. Subordinantamente al mancato accoglimento dei primi due motivi, con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza (L. n. 39 del 1989, artt. 6 e 8, in combinazione con l’art. 1424 c.c., e all’esperibilità del rimedio di cui all’art. 2033 c.c.) nella parte in cui ha negato la nullità del contratto di mediazione per violazione di norme imperative, così escludendo in radice la possibilità di procedere alla verifica dell’applicazione dell’art. 1424 c.c., ai fini della conversione in contratto di procacciamento di affari. Richiamata la giurisprudenza della Corte che ritiene nullo il contratto di mediazione stipulato con il non iscritto all’albo, la ricorrente chiede dichiararsi la nullità dello stesso.

La ricorrente esplicita l’interesse alla dichiarazione di nullità sotto due profili alternativi:

a) una volta dichiarato nullo il contratto, potrebbe procedersi all’applicazione dell’art. 1424 c.c., e riconoscere il procacciamento d’affari all’esito della conversione.

b) una volta dichiarato nullo il contratto e restituite definitivamente le somme all’ E. (e alla CO.I.MI.), passata in giudicato la sentenza, la M.T.A. potrebbe agire per la restituzione per equivalente della propria prestazione lavorativa (art. 2033 c.c.).

6.1. La Corte non può esaminare la questione di diritto relativa al se il contratto di mediazione stipulato dal non iscritto all’albo professionale sia o meno nullo per violazione di norme imperative (rispetto alla quale si registra un orientamento che ritiene la nullità Cass. 18 luglio 2003, n. 11247; Cass. 15 dicembre 2000, n. 15849 e una isolata sentenza che la esclude Cass. 27 giugno 2002, n. 9380) perchè il motivo è inammissibile rispetto ad entrambi i profili di interesse dedotti.

6.2. E’ di ostacolo all’ipotizzabilità della conversione del contratto di mediazione nullo in procacciamento di affari (profilo sub a), il giudicato formatosi sul contratto di mediazione. La Corte di merito, in esito ad articolate argomentazioni, ha qualificato come mediazione il rapporto intercorso tra le parti ed ha escluso espressamente la possibilità di configurare un negozio riconducibile al procacciamento d’affari. Questo profilo della sentenza non è stato fatto oggetto di ricorso, con conseguente formazione del giudicato. Evidente risulta, allora, il difetto di interesse della ricorrente rispetto ad una pronuncia di nullità del contratto di mediazione per poter poi perseguire la conversione dello stesso.

Infatti, il giudice adito a tal fine non potrebbe accertare requisiti di sostanza del contratto in contrasto con quanto già passato in giudicato.

6.3. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse anche per il profilo prospettato sub b).

Infatti, all’ipotizzata esperibilità, in esito al presente giudizio, dell’azione ex art. 2033 c.c., è di ostacolo l’espressa previsione normativa, secondo la quale il mediatore non iscritto è tenuto a restituire il compenso percepito (L. n. 39 del 1989, art. 8).

La Corte ha già avuto modo di escludere l’esperibilità dell’azione ex art. 2041 c.c., affermando il seguente principio di diritto: “Il mediatore non iscritto nei ruoli degli agenti di affari in mediazione, che, ai sensi della L. 3 febbraio 1989, n. 39, art. 6, non ha diritto alla provvigione, non può pretendere alcun compenso neppure con l’azione generale di arricchimento senza causa, atteso che l’art. 8 della stessa legge – secondo cui il mediatore non iscritto è tenuto a restituire alle parti contraenti le provvigioni percepite – comporta l’esclusione, di ogni possibilità di conseguire un compenso per l’attività di mediazione svolta da soggetto non iscritto”. (Cass. 2 aprile 2002, n. 4635). La stessa decisione (vedi motivazione) ha ritenuto che, essendo il soggetto obbligato alla restituzione di quanto eventualmente ricevuto, risulta esclusa ogni obbligazione di pagamento nei suoi confronti, anche se solo naturale (art. 2034 c.c.).

Identico fondamento ha l’esclusione dell’azione di indebito oggettivo, ex art. 2033 c.c., Infatti, pur essendo in astratto applicabile la disciplina dell’indebito oggettivo alle restituzioni conseguenti alla nullità di contratti aventi ad oggetto un tacere invece che un dare (Cass. 2 aprile 1982, n. 2029), l’obbligo di restituzione della provvigione stabilito dal legislatore nel caso in esame, impedisce il ricorso alla disposizione suddetta. Mentre la disciplina dell’indebito oggettivo si basa sull’assenza di causa dell’attribuzione patrimoniale effettuata, nel nostro caso il mancato compenso è voluto dal legislatore come “sanzione” per aver compiuto l’attività senza iscrizione all’albo. Nè, in contrario, può invocarsi l’avvenuto riconoscimento (Cass. 23 maggio 1987, n. 4681) della operatività dell’art. 2126 c.c. – sostanzialmente parallelo alla disciplina dell’indebito oggettivo -, applicato analogicamente all’ipotesi di contratto di agenzia, concluso da persona non iscritta nell’apposito ruolo, nullo per contrarietà a norma imperativa.

Infatti, in questo caso, il divieto di stipulazione del contratto non era integrato dall’obbligo di restituire quanto ricevuto (L. 12 marzo 1968, n. 316, art. 9).

7. Con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza (artt. 1325, 1418 e 2697 c.c., principi in materia di presupposizione e collegamento negoziale, art. 112 c.p.c.. e omessa e contraddittoria motivazione) nella parte in cui condanna la M.T.A. al pagamento a favore della CI.MI. di parte di quanto ricevuto dall’ E. a titolo di provvigione non dovuta.

Il motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata (v. p.2) ha confermato la decisione di primo grado, rigettando l’appello. Essa non contiene un capo autonomo che concerna la condanna della M.T.A. al pagamento a favore della CO.I.MI.. Nè nello svolgimento del processo, nè nella motivazione, contiene alcun accenno ad un’impugnativa della sentenza di primo grado relativa alla suddetta condanna. Nè, le precisazioni delle conclusioni della M.T.A. appellante, come riportate in sentenza, fanno alcun riferimento alla suddetta condanna.

Anche a voler ipotizzare che il motivo è proposto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, che consentirebbe alla Corte di verificare senza limitazioni la ricorrenza dell’error in procedendo, la ricorrente non ha dimostrato di avere interesse alla pronuncia.

Infatti, non ha neanche dedotto di aver appellato specificamente il capo della sentenza di primo grado concernente la condanna al pagamento in favore della CO.I.MI. In mancanza, deve, piuttosto, presumersi il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado sul punto.

8. In conclusione, il ricorso va rigettato. Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente le spese del presente giudizio: data la peculiarità della vicenda sottostante, nella quale la società non ha ricevuto compenso per l’attività svolta.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2011.

 

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2011

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