I criteri per valutare la sussistenza del licenziamento per giusta causa

Tag 18 Febbraio 2020  |
l’ Intestazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8782/2012 proposto da:

C.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE MAGGI, rappresentato e difeso dall’avvocato D’AQUINO ELIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AMI’ – ALIMENTARI MASTROMARTINO ITALIA S.A.S. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 146, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA VERALDI, rappresentata e difesa dall’avvocato IOELE LORENZO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 175/2011 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 30/03/2011, r.g.n. 626/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/10/2014 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

il Fatto

1. La Corte d’Appello di Salerno, con la sentenza n. 175 del 30 marzo 2011, pronunciando sull’impugnazione proposta da C. M. nei confronti della società AMI’ spa, in riferimento alla sentenza del Tribunale di Salerno n. 1902 del 2008, rigettava l’appello e compensava tra le parti le spese di giudizio.

2. Il C., che deduce di lavorare dal 12 dicembre 1992 alle dipendenze della società AMI’ spa, esercente l’attività di vendita all’ingrosso ed al dettaglio di beni di consumo, con mansioni prima di predisposizione della merce negli appositi scaffali, poi di preparazione delle merci per la vendita e, dal 2002, di sbancallaggio ed imballaggio pedane, dopo aver esperito con esito sfavorevole il procedimento cautelare, aveva adito il Tribunale di Salerno per sentire dichiarare la nullità e/o illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società AMI’ spa in data 24 dicembre 2004, con conseguente condanna della datrice di lavoro a reintegrarlo nel posto di lavoro in precedenza occupato e a corrispondergli le retribuzioni maturate dal recesso all’effettiva reintegra, con gli accessori come per legge.

Il licenziamento, ad avviso del C., sarebbe stato privo di giusta causa in quanto lo stato di infermità che lo aveva costretto ad assentarsi dal lavoro nel periodo indicato nella lettera di contestazione degli addebiti (compreso tra il 22 novembre ed il 6 dicembre 2004) non era affatto simulato, ma risultava conclamato dalla certificazione sanitaria versata in atti; peraltro, l’INAIL, a seguito di denunzia di malattia professionale inoltrata il 24 novembre 2004, aveva confermato la sussistenza di una menomazione della integrità psico-fisica, consistente nel deficit all’estremo del rachide lombare, riconoscendogli un danno biologico nella misura dell’8 per cento.

3. Il Tribunale di Salerno rigettava la domanda con sentenza che trovava conferma in sede di appello.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il C. prospettando quattro motivi di ricorso.

5. Resiste con controricorso la società AMI’ – Alimentari Mastromartino Italia – sas, di Mastromartino Michele Salvatore e C., nuova denominazione sociale della società AMI’ spa.

il Diritto

1. Con il primo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., in tema di giusta causa di licenziamento, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 1, nonchè dell’art. 2106 c.c., in relazione al principio di proporzionalità tra il fatto contestato e gli addebiti mossi.

Ad avviso del ricorrente, la condotta contestata non costituirebbe giusta causa del licenziamento, sia per la lieve entità della stessa e la sua non univoca interpretazione, sia per la mancanza di danno all’azienda.

Il C. era affetto da anni da una patologia alla schiena acclarata e diagnosticata da numerosi specialisti, intervenuti anche su istanza del datore di lavoro, e pertanto non si era in presenza di un disturbo improvvisato o strumentale al sottrarsi da parte del prestatore di lavoro agli obblighi allo stesso imposti dal contratto di lavoro, e i fatti oggetto della contestazione disciplinare (l’avere sollevato una bombola di gas, aver sostituito una ruota della propria autovettura, aver sollevato in braccio la propria figlia, peraltro senza precisare se la bombola fosse piena o vuota, e l’età, altezza peso della figlia), che si verificano nei giorni immediatamente precedenti il rientro, appartenevano alle normali attività della vita di chiunque. Pertanto andava esclusa la sussistenza di elementi giustificativi del provvedimento espulsivo.

Nè vi sarebbe proporzionalità tra addebito e recesso, alla luce della giurisprudenza di legittimità che richiede che la condotta, per la sua gravità, possa incidere sulla fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 5 e 8.

Assume il ricorrente che il richiamato art. 5, vieta accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e demanda i casi di controllo ai servizi ispettivi degli istituti previdenziali, così tutelando non solo il diritto individuale del dipendente, ma anche un interesse collettivo al controllo imparziale delle assenze per infermità.

Nel caso di specie il C. deduce che l’aver sottoposto, per motivi legati agli accertamenti sanitari, il lavoratore ad un pedinamento da parte di una agenzia investigativa integrava un comportamento in contrasto con il dettato dell’art. 5, dello statuto dei lavoratori.

Comunque, qualora non avesse potuto trovare applicazione il citato art. 5, avrebbe dovuto farsi applicazione dellaL. n. 300 del 1970, art. 8, secondo cui, tra l’altro, è vietato al datore di lavoro nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.

3. I motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

Gli stessi non sono fondati.

3.1. In primo luogo, va esaminata la censura relativa alla violazione degli artt. 5 e 8, dello statuto dei lavoratori, atteso che le contestazioni formulate nei confronti del C. traevano origine dagli accertamenti effettuati dalla società datrice di lavoro tramite agenzia investigativa.

Questa Corte ha affermato, con orientamento al quale si intende dare continuità (Cass., n. 6236 del 2001), che le disposizioni della L. n. 300 del 1970, art. 5, non precludono che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto – pur non risultante da un accertamento sanitario – atta a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l’assenza.

E’, altresì, naturalmente insito in tale giurisprudenza il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell’attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

In particolare, questa Corte si è già pronunciata in relazione a un caso in cui, di fatto, la ricerca degli elementi utili a verificare l’attendibilità della certificazione medica inviata dal lavoratore era stata compiuta da un’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro (Cass. n. 3704/1987, cit.).

Nè, nel caso di specie, l’agenzia investigativa sconfinava nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori (cfr., Cass., n. 4984 del 2014), e la fattispecie esula dall’ambito di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 8.

3.2. Quanto alle censure relative alla giusta causa del licenziamento e alla proporzionalità della sanzione espulsiva, in punto di diritto, vale ricordare che, in ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza (ex multis, Cass., n. 15654 del 2012, n. 6498 del 2012, n. 5095 del 2011) è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente che per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, anche a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

In tale contesto, può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio non necessariamente di ordine economico al datore di lavoro.

Il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia, dunque, nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa si sottraggono al riesame in sede di legittimità (ex multis, Cass., n. 7948 del 2011).

3.3. La Corte d’appello di Salerno, con congrua motivazione, ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi.

Il giudice di secondo grado ha rilevato come gli accertamenti disposti dalla AMI’ spa (il cui esito era descritto nelle relazioni in data 25 novembre 2004 e 13 dicembre 2004, a firma del titolare dell’Agenzia investigativa (OMISSIS)) era emerso che il C., nel periodo in cui era assente per malattia, aveva compiuto azioni (fatti richiamati nella lettera di contestazione e posti alla base del recesso) che apparivano ictu oculi incompatibili con la denunziata infermità.

Lo stesso, in data 22 novembre 2004 era stato visto caricare sull’autovettura una bombola di gas di 25 kg, che successivamente trasportava presso la propria abitazione; il successivo 24 novembre, inoltre era stato notato nell’atto di sostituire la ruota anteriore sinistra dell’autovettura con quella di scorta posizionata sotto il veicolo; il 6 dicembre 2004, poi, era stato visto mentre “con molta disinvoltura e senza accusare alcuna fatica fisica, sollevava dal suolo la figlia e, camminando… dondolava la piccola”.

Osservava la Corte d’Appello, che tali condotte denotavano una buona efficienza fisica del C., con particolare riferimento all’apparato osteoarticolare e risultavano del tutto incompatibili con la effettiva sussistenza dell’affezione che aveva dato luogo alla sua prolungata assenza per malattia (lombosciatalgia acuta), che, com’è noto preclude in tutto o in parte anche semplici movimenti di flessione e/o di estensione del tronco.

Correttamente, quindi, afferma la Corte d’Appello, il giudice di primo grado ha ritenuto che la patologia denunziata dal C. fosse del tutto insussistente o comunque non avesse raggiunto un livello di intensità tale da impedirgli di espletare la sua attività lavorativa per un lasso di tempo certamente considerevole.

Il giudice di secondo grado riteneva a sua volta che detta condotta si connotava per indubbia gravità ed integrava gli estremi di una causa legittimante l’adozione del provvedimento estintivo del rapporto di lavoro. Il comportamento tenuto dal C. (rimasto assente dal lavoro per un lungo periodo in forza di un asserito stato morboso rivelatosi, di fatto, insussistente o, comunque, non di rilevanza tale da impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa) denotava, infatti, mala fede e slealtà nei confronti del datore di lavoro ed integrava pertanto gli estremi di una mancanza tanto grave da incidere in maniera diretta sul rapporto fiduciario, così da impedire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

4. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., (art. 360, comma 1, n. 4).

Espone il ricorrente che il giudice di primo grado motivava la sentenza riportandosi integralmente al provvedimento che era stato emesso nella fase cautelare e anche la Corte d’Appello si era limitata a giustificare la scelta del Tribunale di motivare per relationem senza aggiungere alcuna altra valutazione e senza fornire risposta alle doglianze sollevata dal ricorrente. In particolare, ometteva di pronunciarsi sulla richiesta di nomina di un consulente tecnico.

Il motivo, che non supera il vaglio di autosufficienza circa la dedotta omessa pronuncia in relazione all’istanza di nomina di CTU, atteso che la relativa doglianza non è in alcun modo circostanziata anche al fine di valutarne la rilevanza, non è fondato.

Come si può rilevare, da quanto esposto nell’esaminare i due primi motivi di ricorso, la Corte d’Appello, che, peraltro, statuisce espressamente sul motivo di appello che censura la prospettata motivazione per relationem della sentenza del Tribunale, si pronuncia sulla sussistenza della giusta causa del licenziamento e sulla proporzionalità della sanzione irrogata.

5. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Sussisterebbe difetto di motivazione in relazione alla mancata ammissione di prova, mancata ammissione di perizia per rivalutare la documentazione medica, al fine di individuare un decorso tipo della malattia e confrontarlo con quello del C., dal momento che le condizioni di salute del lavoratore non erano mai state sottoposte al vaglio di un perito che esaminasse almeno la documentazione esistente.

Il motivo è inammissibile in quanto, per come formulato in modo generico, è privo di rilevanza, tenuto conto, in particolare che la Corte d’Appello ha affermato che la legittimità del licenziamento non poteva dirsi infirmata dalla circostanza che l’INAIL, con nota del 4 ottobre 2007, aveva accertato la sussistenza di una menomazione all’integrità psico-fisica del C. (deficit ai gradi estremi del rachide lombare con Lasègue positivo bilateralmente), riconoscendo un grado di invalidità dell’8 per cento, dal momento che la sussistenza della discopatia lombare non veniva posta in discussione dalla AMI’ spa che, invece, contestava la C. di essersi assentato dal lavoro per un periodo di tempo tutt’altro che esiguo sull’asserito presupposto della ricorrenza di uno stato patologico (caratterizzato da lombo sciatalgia acuta) insussistente o quanto meno, non di tale gravità da impedire l’espletamento dell’attività lavorativa, come acclarato dall’agenzia investigativa.

Peraltro, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass., n. 15219 del 2007, n. 9461 del 2010) la consulenza tecnica d’ufficio costituisce mezzo istruttorio, e non una prova vera e propria, in quanto tale sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario, e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice.

6. Il ricorso deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro cento per esborsi, Euro quattromila per compensi professionali e spese generali in misura del 15 per cento dei compensi, e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2014

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