Comunicazione del licenziamento: valgono le regole sulla notificazione

Tag 22 Novembre 2013  |

 

[massima]

In materia di notificazione del provvedimento di licenziamento valgono le regole previste dall’art. 1335 c.c.

Pertanto, laddove la comunicazione venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, la stessa si presume conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario.

D’altra parte, nel caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, la notifica è perfezionata al momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale.

Cass. civ. Sez. lavoro, 18/11/2013, n. 25824

 

 

 

[intestaz]

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE LAVORO

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

 

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

 

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

 

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

 

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso 11177-2011 proposto da:

 

P.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

 

– ricorrente –

 

contro

 

POSTE ITALIANE S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

 

– controricorrente –

 

avverso la sentenza n. 1842/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/04/2010, r.g.n. 4558/2008;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/10/2013 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

 

udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega verbale FIORILLO LUIGI;

 

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

 

 

[fatto]

Con sentenza resa il 24.5.2010, la Corte di Appello di Roma respingeva il gravame proposto da P.M. avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda del predetto intesa al riconoscimento dell’illegittimità del recesso intimato per giusta causa ed alla reintegra nel posto di lavoro, con le conseguenze risarcitorie di legge. Osservava la Corte del merito che era infondato il rilievo relativo alla regolarità della comunicazione dell’invito a riprendere servizio, in quanto correttamente la società aveva utilizzato per le comunicazioni imposte dall’esito del giudizio – conclusosi con sentenza che aveva accertato l’illegittimità del termine apposto al contratto e condannato la società alla riammissione in servizio – l’indirizzo che il ricorrente aveva indicato come propria residenza nel ricorso più datato, nel quale aveva avuto il domicilio sino al luglio 2005, in relazione al quale si era realizzata la giacenza postale, tenuto conto del fatto che nessuna ragione ostativa rispetto alla conoscenza come normativamente presunta il ricorrente aveva allegato nel ricorso, ove era stato dedotto solo il mancato recapito della raccomandata. Analoga situazione doveva ritenersi concretizzata in relazione alla lettera di contestazione dell’addebito ed, in ogni caso, la variazione del luogo di residenza imponeva all’interessato di darne notizia alla società, sicchè era insostenibile la tesi che la comunicazione fosse effettuata presso il difensore nel domicilio eletto nel ricorso o alla diversa residenza indicata in altra comunicazione che aveva preceduto lo stesso, non prevedendo la norma gerarchie di sorta e non essendo ravvisabili violazioni delle clausole generali di correttezza e buona fede, dalle quali, comunque, sarebbero discese unicamente conseguenze risarcitorie. Doveva, poi, ritenersi che la sanzione espulsiva fosse del tutto proporzionata rispetto alla contestata assenza ingiustificata al lavoro.

 

Per la cassazione di tale decisione ricorre il P., affidando l’impugnazione a sette motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

 

Resiste, con controricorso, la società, che espone ulteriormente le proprie difese in memoria.

 

 

 

[diritto]

Con il primo motivo, il P. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1335 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando che la Corte del merito ha erroneamente applicato i criteri di cui all’indicata norma codicistica, atteso che il mittente ha l’onere di utilizzare quelle modalità della dichiarazione recettizia che risultino idonee a realizzare gli effetti che la stessa è destinata a produrre, scegliendo il luogo più idoneo per la ricezione, che, in base ad un collegamento ordinario o di normale frequenza o per preventiva comunicazione dell’interessato o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio o controllo del destinatario. In un momento successivo alla risoluzione del contratto a termine poi impugnato, il P. aveva indicato alla società quale proprio indirizzo di residenza quello di (OMISSIS), e, con lettera del 29.5.2003 avente ad oggetto la richiesta di convocazione per il T.O.C., aveva eletto domicilio presso l’avv. Rizzo. Al momento della disposizione della riammissione la società era, quindi, in possesso di tutti i recapiti e non rispondeva a realtà che esso ricorrente non avesse comunicato variazioni dell’indirizzo originario. La società – osserva il ricorrente – nonostante la conoscenza della giacenza della corrispondenza inviata all’indirizzo di via (OMISSIS), ha reiterato le comunicazioni proprio presso tale domicilio ove non era stato curato il ritiro, senza contattare il P. presso uno dei recapiti alternativi. Sostiene, pertanto, violazione ed erronea applicazione dei criteri presuntivi dell’art. 1335 c.c..

 

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, ex art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che la successione cronologica dei fatti, relativi alla mancata esecuzione del provvedimento da parte del P. su sollecitazione della società Poste Italiane, alla comunicazione del provvedimento disciplinare ed alle comunicazioni inviate dal lavoratore al domicilio eletto del difensore anche con notifica del titolo esecutivo, avrebbe dovuto indurre la Corte a soffermarsi sul grado di certezza e sulla gravità degli elementi portati a prova contraria dal P..

 

Con il terzo motivo, si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, evidenziando che le regole di correttezza e buona fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto mirano alla concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi e richiama documentazione allegata al fascicolo di primo grado nella quale esso ricorrente aveva chiesto l’invio del contratto di lavoro indicando quale residenza quella di (OMISSIS), cui doveva ritenersi pervenuto il contratto, in possesso del ricorrente, nonchè lettera raccomandata del 29.5.2003 per il tentativo obbligatorio di conciliazione, con elezione di domicilio presso l’avv. Rizzo.

 

Sostiene, pertanto, che la società al momento della comunicazione della riammissione in servizio era in possesso di tutti i recapiti e rileva che la stessa, sia prima che dopo il licenziamento, aveva sempre notificato le proprie comunicazioni presso lo studio legale, laddove per la comunicazione della riammissione in servizio aveva agito in dispregio dei doveri strumentali al soddisfacimento dei diritti delle parti contraenti, a prescindere da ogni problema di gerarchia degli indirizzi maggiormente efficaci ai fini delle comunicazioni, utilizzando un sistema in sè lecito, per realizzare un fine vietato da norma imperativa e cioè l’elusione delle tutele di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.

 

Insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, viene lamentata con il quarto motivo, assumendo il ricorrente che, da una parte nella pronunzia si premette che la domanda è volta ad ottenere la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni fino alla stessa e, dall’altra, si ritiene l’irrilevanza dell’accertamento della violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, avendo tale violazione mere conseguenze risarcitorie, non in discussione nella controversia, laddove la violazione degli indicati obblighi di correttezza e buona fede ha avuto influenza sulla stessa legittimità del licenziamento.

 

Con il quinto motivo, il P. ascrive alla sentenza impugnata violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che il recesso di Poste è privo di giusta causa, perchè esso lavoratore non è mai stato posto – dolosamente – nella condizione di scegliere di adempiere alla sua obbligazione e che il suo comportamento è stato valutato senza tenere conto degli aspetti concreti dell’intera vicenda e del comportamento particolare della parte datoriale.

 

Il sesto motivo contiene la denunzia di violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e verte sulla valutazione delle circostanze del caso concreto ai fini della individuazione della volontarietà della condotta del dipendente e della proporzionalità della sanzione irrogata.

 

Infine, con il settimo motivo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, assumendo che la sanzione sia stata adottata in palese contrasto con le garanzie procedurali di cui agli artt. 7 Statuto e 54 del c.c.n.l. di categoria.

 

Con i primi tre motivi, con i quali si denunzia la violazione di diverse norme codicistiche sul rilievo della mancata considerazione di elementi fattuali, relativi alla conoscenza di ulteriori recapiti alternativi o sull’invio di atti precedenti e successivi a quello dell’invito conseguente alla riammissione in servizio, prospettandosi la possibilità che la società facesse riferimento ad essi per rendere possibile la conoscenza della raccomandata, in realtà vengono delineati percorsi valutativi diversi da quelli seguiti dal giudice del gravame senza evidenziare la decisività degli elementi indicati e senza indicare come tali rilievi fossero già stati avanzati nella fase del merito. Peraltro, è principio già affermato in sede di legittimità, sebbene in tema di comunicazione del recesso ma validamente applicabile anche nella specie, quello secondo cui, qualora la comunicazione del provvedimento di licenziamento venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (v. Cass. 15.12.2009 n. 26241, Cass., 24.4.2003 n. 6527). Nella specie, risulta che la comunicazione presso l’indirizzo di Via (OMISSIS) è stata restituita al mittente per compiuta giacenza il 25.8.2005 ed anche l’ulteriore missiva di contestazione degli addebiti era restituita al mittente il 23.10.2005 sempre per compiuta giacenza, sì che la valutazione del giudice di merito circa la sufficienza di tale attestazione, anche in considerazione della mancanza di contrari elementi di prova forniti dalla controparte, si rivela del tutto corretta e si sottrae perciò alle censure della ricorrente. La operatività del principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario si realizza quando il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando l’agente postale, ancorchè errando, l’abbia rispedito al mittente, dichiarando essere il destinatario sconosciuto (v. Cass. 8.6.2012 n. 9303 ed anche Cass. 26.4.1999, n. 4140). D’altra parte, ai fini dell’applicazione dell’ari 1335 cod. civ., è sufficiente osservare che tale disposizione consente di superare la presunzione di conoscenza ivi prevista soltanto mediante la prova, da parte del destinatario, di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto. Il ricorrente – che non contesta che la notificazione sia stata eseguita al proprio indirizzo – assume che tale prova era in atti, risultando dall’esito di compiuta giacenza della raccomandata che dava atto delle formalità compiute dall’ufficiale giudiziario. L’argomento non è convincente, atteso che la prova richiesta dalla legge, per poter vincere la presunzione legale, deve necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o interrompe in modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione e deve, altresì, dimostrare che tale situazione è incolpevole, non poteva cioè essere superata dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (cfr. Cass. 6.11.2011 n.20482). Nel caso di specie, invece, il ricorrente non fornisce nè allega alcun fatto diretto a dimostrare di non aver potuto avere conoscenza effettiva dell’atto, nè che tale mancanza era ascrivibile ad un comportamento incolpevole, cercando di imputare al mittente una colpevole utilizzazione di un indirizzo che, in base a regole di correttezza e buona fede, desunte da un ricostruzione dei fatti del tutto personale, doveva ritenersi da parte della società da utilizzare successivamente agli altri indicati, tra cui il domicilio eletto presso il difensore, che, peraltro, concerne le comunicazione relative al giudizio e non quelle successive allo stesso destinate al lavoratore.

 

Anche il quarto motivo è infondato, atteso che il riferimento alle conseguenze della violazione degli obblighi di correttezza e buona fede è solo residualmente rilevante, una volta precisato che non esiste alcun obbligo di reiterazione della comunicazioni che siano già giuridicamente compiute alla stregua della norma civilistica e del regolamento postale, e posto quanto sopra evidenziato con riferimento alla compiuta giacenza, una volta pervenuto l’atto all’indirizzo del destinatario.

 

Il quinto motivo, che si fonda sulla violazione dell’art. 2119 c.c. in relazione alla mancanza del presupposto della scelta di adempimento all’obbligazione di riprendere il servizio, imputandosi al datore un comportamento doloso inidoneo a renderne impossibile la realizzazione e sulla omessa valutazione degli aspetti concreti della vicenda fattuale, sconta una genericità assoluta di prospettazione ed involge aspetti valutativi di competenza del giudice del merito, non sindacabili nella presente sede di legittimità. Per il resto ripropone critiche che rifluiscono nelle doglianze espresse nei primi tre motivi quanto alla contestazione del comportamento della società in sede di comunicazione dell’invito a riprendere servizio rivolto al lavoratore.

 

In relazione a quanto dedotto nel sesto motivo, non può il P. dolersi genericamente di una mancata considerazione in concreto della fattispecie e di una omessa valutazione dell’elemento intenzionale da parte del giudice del merito, atteso che la condotta è stata coerentemente da quest’ultimo reputata oggettivamente idonea a configurare l’assenza ingiustificata contestata, non potendosi conferire risalto alla convinzione del lavoratore di essere in attesa del formale ripristino del rapporto di lavoro, prevalendo un principio generale di correttezza nei rapporti tra le parti, rispetto al quale assumono rilevanza comportamenti delle stesse rispettosi delle reciproche posizioni che non si rivelino lesivi del rapporto fiduciario. E nella specie la sentenza impugnata ha fornito adeguata motivazione, in linea con l’insegnamento giurisprudenziale di legittimità, secondo cui, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di lavoro, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (V., tra le tante, Cass. 3.11.2011 n. 35). In ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011 e da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n. 6498) che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. E’ stato, altresì, precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).

 

In tema di ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato in maniera condivisibile affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass. 6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., (norma c.d. elastica) compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.

 

Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata dal lavoratore sotto tale profilo appare rispettosa dei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte, in quanto il giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della stessa, rilevando che la condotta del P., connotata da un’assenza protrattasi per più di dieci giorni, anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale ha integrato un comportamento idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, sia perchè le eventuali convinzioni personali del ricorrente sono, per quanto già detto, del tutto irrilevanti a fronte del dato oggettivo della mancata presentazione al lavoro a seguito di regolare invio della raccomandata presso il luogo dove secondo legge la stessa doveva essere recapitata, sia perchè ogni conseguenza negativa è imputabile unicamente al predetto, che avrebbe dovuto predisporre, secondo un principio di buona fede e di ordinaria diligenza, meccanismi idonei a rendere a lui conoscibile ogni comunicazione datoriale.

 

Nella specie, il licenziamento per giusta causa è stato adottato in coerenza con le previsioni collettive e sarebbe stato pertanto onere del lavoratore produrre la contrattazione di riferimento per contestare validamente la riconducibilità della fattispecie concreta alla previsione collettiva. Nè può sostenersi che non sia stata operata la necessaria e congrua valutazione dell’elemento psicologico della condotta posta in essere, posto che l’accertamento compiuto ha evidenziato la sussistenza di un grado di colpa tale da determinare un senso di perdurante sfiducia nei confronti del lavoratore, come avallato dalla stessa previsione della contrattazione collettiva secondo una valutazione preventivamente ed in via generale effettuata dalle stesse parte collettive.

 

Infine, l’ultimo motivo, con il quale si censura la sentenza nella parte in cui ha omesso di valutare che la sanzione espulsiva era stata irrogata senza il preventivo procedimento disciplinare, in violazione anche dell’art. 7, comma 2, dello Statuto dei lavoratori, deve ritenersi connotato da profili di novità, non risultando che la questione sia stata prospettata ed abbia formato oggetto del thema decidendum, onde si rivela per tale ragione inammissibile.

 

Alla stregua delle esposte argomentazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.

 

Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del P. e si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

 

Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2013.

 

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2013

 

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